I PRINCIPI DEL DIRITTO DEL LAVORO E LA LORO NECESSARIA RIVALORIZZAZIONE

La duplice finalità del diritto del lavoro: la nozione giuridica e la nozione sociologica di subordinazione.

Luisa Galantino
Ordinario di Diritto del lavoro
Università di Modena e Reggio Emilia
ITALIA

  1. La duplice finalità del diritto del lavoro: la nozione giuridica e la nozione sociologica di subordinazione.- 2. Il diritto del lavoro e l’evoluzione dell’organizzazione produttiva.- 3. Il diritto del lavoro e la globalizzazione dell’economia. – 4.L’esuberanza, l’incongruenza e l’inadeguatezza di tutela del diritto del lavoro. – 5. Alcune proposte ricostruttive: dal diritto del lavoro al diritto dei lavori. – 6. L’equilibrio dinamico fra il diritto del lavoro e il diritto al lavoro. Il modello comunitario. – 7. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e il principio di non discriminazione.- 8. Le future prospettive del modello sociale europeo. La flexicurity. – 9. Gli obiettivi e gli strumenti di realizzazione del modello sociale europeo.
  2. la duplice finalità del diritto del lavoro: la nozione giuridica e la nozione sociologica di subordinazione

Storicamente il diritto del lavoro nasce come “diritto operaio”, sicché la sua disciplina appare ispirata ad una duplice ratio.

Da un lato esso è volto all’esigenza di difendere la persona del lavoratore direttamente implicata nell’attività di lavoro svolta in modo “subordinato”, cioè eterodiretta dal soggetto cui fa capo l’organizzazione produttiva.

Dall’altro lato, esso vuole realizzare la tutela di un soggetto economicamente debole, il quale trae esclusivamente dal proprio lavoro i mezzi di sostentamento.

Sotto il primo profilo, il diritto del lavoro intende creare un apparato protettivo, che salvaguardi i diritti inviolabili della persona, tuteli la sua integrità fisio-psichica e limiti i poteri discrezionali del datore di lavoro.

In tale prospettiva, le caratteristiche assunte dall’organizzazione di lavoro, in cui è inserito il lavoratore, determinano la concreta disciplina degli specifici rapporti di lavoro subordinato: il lavoro nell’impresa – assunta a figura referenziale – il lavoro domestico, il lavoro sportivo e così via.

Il secondo profilo, cioè la “nozione sociologica di subordinazione” determina la esigenza di offrire al lavoratore idonee tutele assicurative e previdenziali in caso di situazioni di bisogno o di  incapacità totale o parziale a prestare la propria attività.

Dunque, la disciplina giuslavoristica nasce con l’originaria funzione di tutela del lavoratore dipendente ritenuto per definizione anche il soggetto debole del rapporto e nel mercato del lavoro.

Per quanto attiene poi alle tecniche che il diritto del lavoro utilizza al fine di porre rimedio alla situazione di inferiorità economico-sociale del lavoratore e al suo stato di subordinazione durante il rapporto, la più diffusa è quella che affida alla legge il potere di garantire condizioni minime inderogabili, che si sostituiscono automaticamente alla difformi clausole contrattuali individuali.

In altre parole, la legge impone la conservazione del contratto, indipendentemente da un’indagine diretta ad accertare l’essenzialità delle clausole sostituite rispetto agli interessi perseguiti dal regolamento negoziale nella sua formulazione originaria.

Il mantenimento coattivo del contratto non può spiegarsi se non in ragione della tutela di esigenze diverse da quelle dell’interesse comune dei contraenti. In particolare, risulta chiaro l’intento di protezione di un soggetto dal rischio che l’altro possa invocare la nullità dell’intero contratto e quindi la mancata costituzione del rapporto.

Ciò presuppone che i contraenti non vengano considerati in posizione di parità sostanziale. Infatti, l’invalidità dell’accordo posto in essere si risolverebbe in uno svantaggio per il contraente debole, non consentendogli di conseguire altrimenti il risultato al quale egli tende per il tramite della stipulazione del contratto.

Ruolo semplicemente essenziale ai fini della tutela delle condizioni di lavoro è svolto anche alla contrattazione collettiva – espressione del principio di libertà sindacale – la cui funzione è proprio quella di stabilire non solo i minimi di trattamento economico ma anche si innalzare gli standard di disciplina normativa migliorativi rispetto a quelli fissati dalla legge e non derogabili in senso peggiorativo da parte del contratto individuale di lavoro.

Il diritto del lavoro intende dunque garantire al lavoratore una tutela minima coattiva, che è inderogabile in pejus da parte dell’autonomia collettiva o individuale. Invece, queste ultime fonti sono di solito abilitate a derogare in melius alle norme di legge protettive dei lavoratori, al fine di realizzare la valorizzazione massima della persona del lavoratore.

In tal senso si può parlare di un “principio di favore” verso il lavoratore, che costituisce uno sviluppo ed un superamento del “principio di protezione” precedentemente esaminato. Quest’ultimo  è ispirato ad una tutela minima coattiva ed indifferenziata dei lavoratori e come tale può considerarsi una diretta derivazione del principio d’uguaglianza. Il principio di favore invece tende alla differenziazione di situazioni giuridiche oltre tale tutela, che si presuppone già soddisfatta ed opera per il tramite della prevalenza della fonte più favorevole al lavoratore, fra più fonti regolatrici di un medesimo rapporto di lavoro.

Nondimeno, non si può fare a meno di rilevare che – quanto meno nell’ordinamento italiano – quelle appena esposte rappresentano le regole ordinarie sulle quali si fondano i rapporti tra legge ed autonomia privata nonché quelli tra autonomia individuale e collettiva. Soprattutto nel corso degli ultimi 25 anni sono stati invero numerosi gli interventi legislativi che hanno autorizzato la contrattazione collettiva a derogare anche in senso peggiorativo a norme di legge, modificando quindi il modello appena accennato.

Si può parlare al riguardo di una vera e propria scelta di politica legislativa intesa ad attuare un processo di “deregolamentazione controllata” del diritto del lavoro. In altre parole, si attribuisce alla contrattazione collettiva – di solito posta in essere dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale – il potere di modificare in senso peggiorativo lo statuto protettivo del lavoratore in considerazione delle esigenze del mercato del lavoro e della stessa tutela occupazionale.

Peraltro, è solo per determinate materie ed entro certi limiti che il legislatore consente la derogabilità in peius di norme di legge da parte dei contratti collettivi, che sono strumento assai meno rigido della legge e quindi più capace di adattarsi ai mutamenti della realtà economica.

Dunque, non viene sovvertita la regola generale secondo la quale la competenza legale è informata alla fissazione di trattamenti minimi a tutela del lavoratore, lasciando l’autonomia collettiva libera di derogare in melius.

  1. il diritto del lavoro e l’evoluzione dell’organizzazione produttiva

Il lavoro subordinato nell’impresa si qualifica come inserimento stabile dell’attività del lavoratore nell’organizzazione dell’impresa altrui per il raggiungimento del suo fine produttivo.

Il coordinamento delle prestazioni di lavoro nella complessiva attività di impresa avviene secondo esigenze tecniche, che mutano in relazione al tipo di organizzazione produttiva, in cui lavora il prestatore di lavoro.

La carenza di autonomia organizzativa del lavoratore è stata il dato caratterizzante del lavoro prestato nella società industriale, che ha operato una rigida sincronizzazione dei tempi, degli spazi e delle modalità di esecuzione della prestazione.

È ormai constatazione diffusa che il modello sociale tipico di lavoratore subordinato sia venuto a mutare in conseguenza del cambiamento dell’organizzazione produttiva dovuto ai processi di innovazione tecnologica.

In primo luogo, si assiste a fenomeni quali la crescente importanza del lavoro intellettuale rispetto al lavoro manuale e non specializzato, anche nell’ambito delle imprese industriali, col conseguente mutamento delle tipologie professionali. Infatti, il processo produttivo si dematerializza, cioè richiede un impiego sempre minore di materie prime ed energie ed invece un aumento di beni immateriali, cioè di informazioni e conoscenze che siano capaci di ottimizzare l’uso delle materie prime e di consentire il ricambio dei prodotti e degli stessi modi di produzione. Ne consegue una “terziarizzazione” delle figure operaie, alle quali viene richiesta un’attività non più di semplice manipolazione, ma di controllo di automatismi complessi con conseguente responsabilizzazione sui risultati anziché sulle procedure.

In secondo luogo, vengono introdotte forme di organizzazione del lavoro caratterizzate dalla flessibilità sia riguardo alle dimensioni dell’impresa, sia riguardo al luogo, al tempo e alle modalità della prestazione dell’attività lavorativa.

Gli sviluppi tecnologici ed informatici non si limitano a rendere possibile un incremento di prestazioni lavorative elastiche nel tempo e nello spazio, ma impongono la flessibilità come requisito funzionale della stessa organizzazione di lavoro, la quale diventa sempre meno gerarchizzata. La conseguenza è una struttura produttiva di tipo rettangolare, che appiattisce le differenze di grado e di livello gerarchico, sicchè i lavoratori devono acquisire una professionalità polivalente ed una visione sistemica del ciclo produttivo.

Infine, le nuove tecnologie informatiche consentono di ristrutturare in modo radicalmente nuovo l’organizzazione produttiva, superando la divisione funzionale del lavoro ed attuando sistemi di collegamento diretto fra progettazione, produzione e mercato al fine di soddisfare nel modo migliore le aspettative del consumatore. E’ l’adozione da parte dell’impresa della filosofia della Qualità totale.

In altre parole, l’impresa si trasforma da “orologio” – che è attivo se tutte le parti lavorano come sono state progettate – ad “organismo”, dove tutte le parti svolgono funzioni specializzate, ma fra loro interattive.

In un’organizzazione produttiva – che valorizza il lavoro intellettuale, rende i ruoli lavorativi strettamente complementari e abbandona la struttura gerarchica dell’impresa – l’integrazione dell’attività di lavoro del singolo nell’attività complessiva di impresa, che è appunto l’essenza della subordinazione, si verifica con modalità molto più flessibili di quelle tipiche dell’impresa fordista.

Di qui la richiesta da parte delle imprese di una ridefinizione della disciplina giuridica del rapporto di lavoro, di un’attenuazione dei vincoli posti a tutela del rapporto di lavoro subordinato, in altre parole di una maggiore “flessibilità”.

Quest’ultima diventa una parola magica dal significato polivalente.

Infatti, si parla di flessibilità “esterna” – con riferimento agli istituti di accesso al lavoro o di allontanamento dal posto di lavoro – di flessibilità “interna” con riferimento agli istituti tipici dello svolgimento del rapporto di lavoro (mansioni, retribuzione, tempo di lavoro..), sia infine di flessibilità relativa alla “tipologia dei rapporti di lavoro subordinato”, che si moltiplicano e si contrappongono a quello tradizionale a tempo pieno ed indeterminato (lavoro a termine, lavoro interinale, part-time, apprendistato…).

  1. il diritto del lavoro e la globalizzazione dell’economia

Il diritto del lavoro deve confrontarsi non solo con l’evoluzione del contesto produttivo, ma anche con l’imponente processo della globalizzazione della produzione che – coniugato alla libera circolazione dei capitali e dei flussi finanziari – rende gli Stati nazionali non più in grado di controllare i processi regolativi del mercato del lavoro.

La perdita da parte dei singoli ordinamenti del controllo delle condizioni e dei modi di produzione della ricchezza – e di conseguenza delle stesse opportunità occupazionali – produce una serie di importanti conseguenze per il diritto del lavoro.

In primo luogo, esso deve spostare il proprio angolo visuale dall’ambito locale o comunque nazionale a quello internazionale. Inoltre, i paesi membri dell’Unione europea devono sottostare ai vincoli alle politiche di bilancio derivanti dal processo di integrazione economica e monetaria posti dal trattato di Maastricht – sia pure con i più ampi margini di manovra previsti dai regolamenti CE 27 giugno 2005, n. 1055 e n. 1056/2005 – ed alle regole poste dal diritto comunitario in materia di concorrenza, che vietano gli aiuti di stato, sotto qualsiasi forma, a talune imprese o a talune produzioni (art. 87 TCE).

In presenza di tali nuove coordinate economiche, l’ordinamento interno non può più ricorrere alle tradizionali politiche keynesiane di svalutazione della moneta e di aumento della spesa pubblica, così come ad interventi protezionistici, e gli investimenti imprenditoriali vengono attratti dalle aree territoriali dove le tutele normative del diritto del lavoro sono meno rigide e costose.  

Una seconda importante conseguenza del processo di globalizzazione dell’economia è il mutamento dei contenuti della disciplina giuslavoristica, che deve ormai necessariamente tenere conto degli aspetti economici, sociologici, culturali ed etici condizionanti le politiche occupazionali.  

Un terzo aspetto che il cambiamento del quadro socio-economico pone in luce riguarda la sempre più elevata complessità ed eterogeneità degli interessi che il diritto del lavoro deve soddisfare o quanto meno contemperare. Infatti, gli attori presenti sul mercato del lavoro si qualificano come imprese, lavoratori occupati – con diversa posizione a secondo che si presentino con rapporto di lavoro subordinato od autonomo –  soggetti senza lavoro, pensionati, consumatori, cittadini.

Si tratta di interessi, la cui natura può essere contemporaneamente  pubblica o collettiva o privata e che comunque caricano l’impresa di forti responsabilità etico-sociali, al di là degli obblighi giuridici su di essa gravanti. Infatti, quest’ultima deve operare in un contesto di tipo concorrenziale e dunque con piena tutela dei consumatori; produce ricchezza e pertanto persegue obiettivi di efficienza e produttività; è fattore fondamentale di garanzia dell’occupazione e di conseguenza favorisce la partecipazione alla vita democratica del paese; deve farsi carico della tutela dell’ambiente, che è un bene di tutti i cittadini; rispetta i diritti sociali fondamentali dei lavoratori, fortemente presenti nel contesto dell’Unione europea.

Ai profili innovativi del diritto del lavoro dianzi citati – il passaggio dal focus locale ad una visione globale e sistemica, la dilatazione e l’innovazione dei contenuti, la necessità di conciliare interessi molteplici e diversi – si aggiungono poi aspetti più strettamente giuridici, quali la moltiplicazione delle fonti del diritto del lavoro e delle tecniche da adottare per perseguire il fine della garanzia dell’impiego. Infatti, con le fonti legislative interne dell’ordinamento – che si possono articolare in statali e regionali – si integrano le fonti di derivazione comunitaria ed internazionale.

Il diritto del lavoro vive dunque in una dimensione di pluralismo giuridico, regolativo ed istituzionale, che genera un modello di diritto sociale policentrico ed interrelato.

Il quadro interpretativo deve tenere conto non solo della distribuzione delle competenze fra diversi enti territoriali, ma anche del fatto che in molte aree esse sono attribuite in via concorrente o ripartita a diversi soggetti, sicchè si pone il problema del meccanismo di esercizio delle stesse.

Ad esempio, i rapporti fra fonti comunitarie e fonti interne sono regolati ai sensi dell’art. 5, comma 2 TCE, il quale afferma che “nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario”.

Il diritto del mercato del lavoro ed il diritto del lavoro in senso stretto si muovono dunque in un quadro di governance multilivello, in cui i principi di gerarchia e di competenza non possono essere applicati in modo rigido.

In particolare, la distribuzione delle materie – anche nell’ipotesi di competenza cosiddetta esclusiva – fra legislazione comunitaria, statale e regionale è necessariamente flessibile e dinamica, perché gli interessi ad esse sottese sono soggetti a continui mutamenti.

Le stesse tecniche regolamentative adottate ai diversi livelli – che si scompongono in tecniche di hard e soft law o per meglio dire di diritto rigido e di diritto mite o flessibile – mutano a seconda delle diverse competenze delle istituzioni che producono diritto, dell’equilibrio degli interessi che si intende realizzare, dei risultati da raggiungere,  degli spazi di manovra che il mercato economico mondiale concede.

La scelta delle eventuali tecniche regolamentative utilizzabili dal legislatore è strettamente legata alle finalità della normazione e di conseguenza al bilanciamento di interessi che si intende realizzare. Poiché, come si è visto, gli interessi da contemperare sono molteplici –  riguardando essi categorie di soggetti quali i senza lavoro, i lavoratori subordinati, le imprese, i consumatori, i pensionati, i cittadini in generale – il legislatore fatica a porre regole chiare, semplici e stabili.

La ricerca di un sempre mutevole equilibrio fra i citati interessi fa sì che spesso si utilizzi una tecnica normativa, che mira ad ottenere la condivisione preventiva degli obiettivi posti nelle norme da parte degli utenti delle stesse.

Ad esempio, la partecipazione delle parti sociali all’azione comunitaria prevista dagli artt. 138 e 139 TCE o il ruolo da esse svolto in ambito nazionale per il recepimento delle direttive (art. 137 TCE) è proprio inteso a realizzare quell’effettività del diritto, che costituisce il fondamento essenziale della sua forza vincolante.

Nello stesso ordinamento interno il legislatore – anche nella formulazione di norme rigide imponenti una regolamentazione uniforme sul piano dei contenuti in termini giuridicamente vincolanti – dà spesso spazio a “preamboli”, che anticipano gli scopi della disciplina normativa ed esprime  “ammonimenti”.

Qualora poi si utilizzino le tecniche di soft law, o di cosiddetto diritto mite o flessibile, ci si pone per definizione in una prospettiva non già di governement, bensì di governance.

Ne consegue che si auspica una regolamentazione comune, la quale dovrebbe scaturire appunto dalla condivisione degli obiettivi che sono il portato finale di sofisticate tecniche di mediazione. Si passa dunque dal comportamento per costrizione al comportamento per induzione.

Le caratteristiche della soft law sono la regolazione per principi, la formulazione del precetto in termini persuasivi e non coercitivi, la creazione di procedure reiterate per il monitoraggio dei fenomeni da regolare, la ricerca dell’effettività.

La molteplicità delle fonti e dunque dei centri di potere dislocati all’interno ed all’esterno dell’ordinamento nazionale, la diversità delle tecniche regolative utilizzate, la difficoltà del legislatore di conciliare interessi contrastanti enfatizza la funzione creativa dell’elaborazione giurisprudenziale, unica attività capace di garantire l’unità sistematica di un ordinamento giuridico fortemente pluralizzato nelle sue componenti.

Quest’ultima deve essere capace di valutare le disposizioni particolari alla luce delle idee direttive e dei principi informatori dell’intero sistema, conscio che l’unità dell’ordinamento giuridico non si presenta come un dato oggettivo esistente a priori, ma come uno scopo perennemente da “creare” da parte del giurista.

  1. l’esuberanza, l’incongruenza e l’inadeguatezza di tutela del diritto del lavoro

Se è vero che l’attuale contesto produttivo è caratterizzato dalla globalizzazione dell’economia e dalla perdita di centralità della propria tradizionale figura di riferimento – l’operaio a tempo pieno ed indeterminato addetto alla catena tayloristica della produzione – ne consegue che il diritto del lavoro mostra “esuberanza o incongruenza o inadeguatezza di tutela”.

L’esuberanza di tutela si manifesta nelle ipotesi in cui il lavoro sia prestato da soggetti che godono di più ampia autonomia nell’esecuzione della loro prestazione – sotto il profilo temporale, modale o spaziale – e non sono economicamente deboli. Esempio tipico è quello del dirigente dell’impresa, rispetto al quale la predisposizione di un sistema inderogabilmente protettivo può risultare non pienamente giustificato. Per converso, l’incongruenza di tutela appare soprattutto con riguardo alle ipotesi di prestazioni di carattere continuativo e coordinato, soprattutto a monocommittenza, reso da parte di lavoratori autonomi, che sono dunque in condizione di inferiorità contrattuale (cosiddetti lavoratori parasubordinati). E’ noto che ormai l’impresa si avvale, con sempre maggiore frequenza, di contributi professionali resi da persone legate da rapporti di natura non subordinata, al di fuori quindi dello schema tipico dell’assoggettamento alle direttive del datore di lavoro creditore. Da questo punto di vista, la già accennata flessibilità si manifesta nell’utilizzo di strumenti negoziali alternativi rispetto al contratto di lavoro dipendente, quindi segnati dal riconoscimento alle parti di una più ampia autonomia. Si tratta di una autonomia bilaterale: riguarda la persona del prestatore di lavoro, consentendogli maggiori libertà riguardo alle modalità di svolgimento del lavoro; riguarda la committenza, aprendo spazi all’autonomia privata sconosciuti nel mondo del lavoro propriamente dipendente. Il punto di crisi, al riguardo, è posto proprio dalle forme di contratto di lavoro autonomo nelle quali la posizione di debolezza comunque permanga, vuoi in ragione del carattere esclusivo del rapporto tra committente e prestatore (la già citata monocommittenza), vuoi in ragione delle c.d. asimmetrie informative (il solo prestatore di lavoro ignora le dinamiche di questi rapporti, non conosce bene il mercato del lavoro, etc.), vuoi per altre ragioni ancora diverse.

In altre parole, la situazione di debolezza socio-economica e contrattuale del lavoratore non è necessariamente collegata alla presenza di un rapporto di lavoro subordinato, pur essendo la ragione stessa della costruzione dell’apparato protettivo tipico di quest’ultimo, che dunque diventa distonico rispetto alla sua originaria funzione, mostrando surplus o deficit di tutela.  

L’inadeguatezza di tutela riguarda anzitutto lo stesso generale statuto protettivo del lavoratore subordinato che – costruito con riferimento al lavoratore dequalificato della grande impresa industriale addetto alla catena tayloristica della produzione – non appare più in sintonia con la figura del nuovo prestatore di lavoro, al quale sono richieste abilità interpretative adeguate al ritmo vorticoso dell’innovazione tecnologica e maggiori capacità decisionali. In altre parole, se è vero che l’aumento della produttività è collegato all’aumento delle conoscenze e che dunque l’uomo è chiamato a valorizzare le proprie capacità interiori, il diritto del lavoro deve essere capace di trasmettere sia ai datori di lavoro che ai lavoratori i nuovi valori connessi all’importanza del sapere e di tradurli in convincenti istituti giuridici, idonei a riconoscere diritti e concrete tutele.

In secondo luogo, nell’attuale contesto di globalizzazione dell’economia, appare sempre più evidente che il diritto del lavoro debba occuparsi non solo del complesso di tutele volte a proteggere la persona del lavoratore subordinato, ma anche e soprattutto dello stesso presupposto genetico di tale protezione, cioè del “diritto al lavoro”.

In altri termini, può ben dirsi che oggi il diritto del lavoro soffra di una situazione di tripla crisi, venutasi a determinare con crescente forza a seguito delle rapide trasformazioni del tessuto sociale ed economico.

Da un lato esso – nato come diritto “diseguale”, votato alla protezione dei lavoratori subordinati intesi come necessariamente “deboli” – ha tradito la sua originaria destinazione trovandosi oggi a proteggere chi non ha in realtà bisogno di particolari tutele. Si pensi, appunto, al manager oppure al tecnico altamente specializzato appetito sul mercato del lavoro e perfettamente in grado di imporre, a chi lo voglia assumere, le proprie personali condizioni contrattuali.

D’altro lato, all’opposto, esso è venuto meno alla sua matrice tipica non essendo in grado di garantire alcuna tutela a chi oggi, pur ponendosi sul mercato in condizioni di estrema debolezza -anzi, proprio per questo – operi con una veste giuridica non riconducibile all’area del lavoro subordinato tecnicamente inteso e, quindi, non rientri nel campo applicativo delle relative garanzie. Si pensi alla nutrita schiera dei prestatori di lavoro formalmente – ma solo formalmente –appartenenti al lavoro autonomo cosiddetto minore, come sono nell’ordinamento italiano, i collaboratori coordinati e continuativi a committenza unica oppure agli associati in partecipazione, e così via.

Infine, esso fatica ad adeguare il proprio apparato protettivo alle esigenze delle nuove figure dei lavoratori operanti nella società post-industriale e nell’era della cosiddetta economia globale.

Per quanto attiene a quest’ultimo profilo, non si può negare che l’area di applicazione del modello del contratto di lavoro a tempo pieno ed indeterminato si sia ormai stabilmente ridotta sia per la proliferazione delle forme di lavoro parasubordinato – spesso adottate in funzione elusiva o fraudolenta – sia per un ulteriore dato estremamente preoccupante che emerge dalla realtà sociale.

Si tratta della diffusione dell’economia sommersa,che, ad esempio nel contesto produttivo italiano, secondo dati ufficiali ISTAT, raggiunge quasi il 30% del PIL – con punte elevatissime in alcune regioni del paese – e genera un fatturato imponente.

L’area così rilevante di illegalità sta a significare che i contenuti normativi del diritto del lavoro – formulati su una scomparsa identità uniforme e massificata del lavoro standard – non rispondono più alle nuove esigenze, sicchè queste tendono ad organizzarsi fuori o contro l’ordinamento.

In altre parole, il “diritto del rapporto di lavoro” è in gran parte ineffettivo, cioè privo della caratteristica fondamentale delle norme giuridiche, le quali, secondo il classico insegnamento di Emilio Betti, prennent leur auctorité de la possession et de l’usage.

Sempre più dunque si radicalizza quella contrapposizione che un giuslavorista italiano, con una terminologia divenuta ormai assai diffusa, rileva fra gli insiders – cioè i lavoratori protetti dalla cittadella giuslavoristica – e gli outsiders, esclusi dalle garanzie legali o contrattuali.

  1. alcune proposte ricostruttive: dal diritto del lavoro al diritto dei lavori

Se la precedente analisi è corretta, non sorprende che la nuova frontiera del diritto del lavoro nei paesi europei più avanzati non sia quella dell’incremento dei livelli di protezione esistenti, quanto quella della correzione dei predetti squilibri.

Tuttavia, le fortissime tensioni cui è sottoposta la disciplina giuslavoristica – con riferimento alle dimensioni, ai contenuti, agli interessi da tutelare, alle fonti ed alle tecniche giuridiche rendono assai arduo al legislatore il compito di segnare il punto di contemperamento degli interessi in conflitto, di conciliare i valori della tradizione coi valori della modernità e soprattutto di creare il giusto equilibrio fra le cosiddette esigenze del mercato, che puntano sulla necessaria efficienza dell’impresa, e le esigenze di giustizia sociale, che attengono alla tutela dei lavoratori.

Alcune correzioni – con riferimento alla problematica dell’incongruenza di tutela – vengono proposte principalmente attraverso una più corretta e puntuale “modulazione delle tutele” relativamente a figure giuridiche fino ad oggi non adeguatamente assistite da un adeguato plafond di guarentigie e salvaguardie, ripristinando in tal modo il collegamento fra la normativa del lavoro subordinato e la sua ratio ispiratrice.

In questa direzione non mancano i segnali nell’ordinamento italiano. Ciò è avvenuto anzitutto con riferimento alle tutele previdenziali ed assicurative, che sono state estese progressivamente alla pressoché totalità dei lavoratori autonomi,. Peraltro, anche in tale materia non può essere trascurata la profonda diversità dei regimi applicabili ai lavoratori autonomi rispetto a quelli applicabili ai lavoratori dipendenti e la diversità dei regimi esistenti fra gli stessi lavoratori autonomi.

Ancora, si può richiamare il particolare regime processuale che assiste non solo il lavoro dipendente, ma anche quello autonomo, ove reso in particolari condizioni.

Particolarmente degna di nota, al riguardo, è ancora la figura del collaboratore coordinato e continuativo.

Nell’ordinamento italiano essa ha conosciuto una straordinaria diffusione nel corso degli anni novanta a motivo della sua  flessibilità e, soprattutto, della possibilità offerta ai committenti di poter contare su collaboratori giuridicamente autonomi, ma sovente utilizzati con modalità non molto diverse da quelle tipiche del rapporto di lavoro dipendente.

In altre parole, vista la convenienza della figura, ad essa si è fatto ricorso anche in funzione esclusivamente elusiva delle tutele esistenti per il solo lavoro dipendente, cioè per dare una veste giuridica di comodo a rapporti di lavoro propriamente subordinato.

Nondimeno – al di là dell’utilizzo abusivo di questo istituto, che ha dato vita ad un cospicuo contenzioso avente ad oggetto la corretta qualificazione del rapporto intercorso tra le parti come realmente autonomo ovvero come subordinato – si è venuta a sedimentare una legislazione embrionale che ha permesso di riconoscere al collaboratore, in quanto tale, un plafond protettivo in parte mutuato dal lavoro dipendente.

Un’incisiva innovazione si deve poi al d.lgs. n. 276 del 2003 emanato in virtù della legge delega n. 30 del 2003, di riforma del mercato del lavoro (c.d. “legge Biagi”). A seguito di questo provvedimento lo statuto delle collaborazioni coordinate e continuative risulta oggi profondamente mutato rispetto al passato, nel segno del contenimento del ricorso a questa figura e della sua riconduzione nell’alveo della autonomia stricto sensu intesa.

Le più vistose novità portate dalla nuova disciplina si focalizzano nella necessaria riconducibilità dei rapporti di collaboratori coordinati e continuativi “a uno o più progetti o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con l’organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione della attività lavorativa”. In altri termini, con il nuovo regime scompaiono le forme di collaborazione più apertamente simili a quelle proprie del lavoro dipendente. Gli unici rapporti ammessi sono ora quelli legati ad un opus predeterminato in fase di definizione dell’accordo, e non più, come in passato, anche all’erogazione di semplici operae, di contenuto di fatto indefinito.

Al di là di queste specifiche problematiche, la dottrina giuslavoristica italiana si interroga su una più generale questione: se sia necessario procedere ad una rimodulazione degli ambiti applicativi delle attuali garanzie del lavoro subordinato – con l’eliminazione di alcune rigidità e la previsione di nuove tutele – così da estenderle anche al di fuori dell’area tradizionalmente sua propria, cioè nei confronti del rapporto di lavoro autonomo.

Si tratta, in altri termini, di superare le rigidità della tradizionale alternativa autonomia/subordinazione e di costruire uno “Statuto dei lavori” che riconosca un plafond minimale di segno protettivo omogeneamente riferibile a tutte le relazioni giuridiche in cui sia dedotta una prestazione di lavoro personale a favore di un terzo, al di là della loro qualificazione giuridica. In tal modo verrebbe introdotto  uno standard di tutela diffusa per tutti quei lavoratori che versano nella analoga condizione socio-economica, favorendo così il passaggio dal “diritto del lavoro” al “diritto dei lavori.

Su questo plafond minimale si verrebbero poi a sovrapporre frazioni o segmenti di tutela calibrati in funzione delle materie interessate secondo la tipologia o il modello contrattuale via via considerato. L’alternativa tra lavoro autonomo e lavoro subordinato sarebbe così in larga misura sdrammatizzata, pur conservando una sua rilevanza di fondo.

Tale soluzione non pare peraltro risolvere in nuce, ma solo sdrammatizzare gli aspetti più problematici dell’attuale esuberanza o incongruenza di tutela del diritto del lavoro, senza superare le difficoltà qualificatorie delle fattispecie di lavoro autonomo e subordinato.

Un possibile ulteriore sviluppo – che peraltro richiederebbe notevole capacità di innovazione istituzionale – potrebbe tradursi nella affermazione di un modello modulare di tutela fondato non più sulla costruzione teorico-definitoria della fattispecie, come è avvenuto fino ad ora, ma su specifici elementi concreti valorizzati dal legislatore e collegati a connotati soggettivi ed oggettivi del rapporto considerato.

La dicotomia astratta autonomia-subordinazione potrebbe venir così sostituita da altre coppie alternative, fondate su parametri referenziali facenti capo al datore di lavoro – quali le dimensioni aziendali, i settori di attività, il fatturato, l’area geografica, la natura datoriale – o ai lavoratori, quali ad esempio l’età, l’istruzione, l’anzianità di servizio, i carichi familiari. Il contenuto della tutela verrebbe modulato con riferimento ad alcuni profili, quali, ad esempio, il regime di stabilità, la garanzia di trattamento economico minimo, la tutela verso atti di disposizione.

In tale prospettiva, la legislazione per tipi contrattuali – cui si ricollega la norma inderogabile – verrebbe sostituita da una legislazione per materie, realizzando in tal modo un complessivo “sistema di tutele a geometria variabile”.

Un’ulteriore proposta è poi quella di disancorare il diritto del lavoro dalla tecnica regolatoria dell’inderogabilità in pejus per lasciare ampio spazio all’autonomia collettiva e individuale, ipotizzando una gamma di diritti inderogabili relativi, disponibili a livello collettivo o individuale. La valorizzazione dell’autonomia individuale – magari con percorsi di volontà assistita – consentirebbe di utilizzare una sorta di contratto individuale “a scelta multipla”, col quale il lavoratore opterebbe, d’intesa col datore di lavoro, fra diversi istituti negoziati in sede collettiva;  ad esempio, un migliore trattamento retributivo in cambio di un allun gamento del nastro orario.

Tale visione – che è ovviamente solo una fra le diverse alternative astrattamente ipotizzabili – potrebbe avere il merito di recuperare la ratio autentica del diritto del lavoro, che nasce nel segno della protezione della persona del lavoratore direttamente implicata nell’attività prestata e del soggetto economicamente debole, in grado di trarre esclusivamente dal proprio lavoro i mezzi di sostentamento.

Vale la pena di sottolineare che le proposte dottrinali dianzi indicate non sono state recepite dal  legislatore italiano che – in una logica di intervento onniregolativo e in sintonia con molte indicazioni comunitarie – ha emanato il d.lgs. n. 276 del 2003, cosiddetta riforma Biagi.

Si tratta di un provvedimento legislativo che non incide sulla tradizionale dicotomia fra lavoro autonomo e lavoro subordinato, né sui tratti per così dire ontologici del diritto del lavoro, caratterizzato dall’inderogabilità della norma legale nei confronti dell’autonomia collettiva ed individuale. Piuttosto, esso ribadisce un diritto all’occupazione basato su servizi più efficienti per l’impiego e su politiche attive di workfare, scelta che è stata ampiamente condivisa.  

Più discusso invece è risultato l’intervento inteso ad apportare correttivi a nuove tipologie di lavoro subordinato cosiddette flessibili o atipiche già note all’ordinamento – come il contratto a tempo determinato, il contratto a tempo parziale, l’apprendistato, il contratto di inserimento, la somministrazione a tempo determinato – o ad introdurne di nuove, che peraltro poi sono state successivamente espunte dal contesto giuridico, o comunque sembrano avere avuto assai scarsa diffusione, come il lavoro condiviso (job sharing), lo staff leasing o il lavoro c.d. intermittente.

L’intenzione è stata indubbiamente quella di introdurre elementi di fluidità nel mercato del lavoro, ponendo fra lavoro garantito e non lavoro o lavoro nero la possibilità di occupazioni possibilmente transitorie, che peraltro hanno statuto protettivo ridotto con riferimento solo a limitati profili. Infatti, la flessibilità delle figure tipologiche non può essere esaltata – pena la loro incompatibilità ordinamentale – oltre i limiti che definiscono gli elementi strutturali del sistema di diritto del lavoro: l’inderogabilità delle norme di tutela e la rigidità del tipo contrattuale, intesa come rigidità degli effetti collegati alla fattispecie lavoro subordinato.

In altre parole, il principio di eguaglianza formale e sostanziale agisce come vincolo – derivante non solo dal sistema interno, ma anche da quello comunitario – e richiede la proporzionalità fra la figura principale e le altre concepibili come speciali.

I modelli alternativi di accesso al lavoro – che allentano di volta in volta un singolo profilo di rigidità della disciplina comune – danno poi per presupposto che i lavoratori flessibili accedano in tempi ragionevoli al lavoro standard eventualmente con una specifica formazione o per il tramite di incentivi creati ad hoc dal legislatore.  

In altre parole, il tentativo è stato ed è tuttora quello di utilizzare le tipologie flessibili al fine di favorire nuove assunzioni e successivamente di attuare una  ricomposizione sia pure parziale del mercato del lavoro standard. Peraltro, esso non è stato in grado di superare l’attua destrutturazione del mercato del lavoro.  

  1. l’equilibrio dinamico fra diritto del lavoro e diritto al lavoro. il modello comunitario

Lo svolgimento di un’attività lavorativa costituisce non solo, come già si è detto, il presupposto stesso della protezione di cui gode successivamente il lavoratore subordinato e dunque dà corpo e spessore alla disciplina del diritto del lavoro, ma è un fondamentale strumento di valorizzazione della persona e di partecipazione alla vita democratica del paese.

Non a caso i principi costituzionali di cui agli artt. 1,2,3 e 4 della Costituzione italiana pongono in evidenza che l’archetipo dell’ordinamento è quello in cui i cittadini vengono valutati alla stregua della loro posizione professionale e non più alla luce di altri fattori un tempo ritenuti dominanti, come ad esempio il censo o il casato.

 Poiché il contesto produttivo è dominato da variabili indipendenti – quali il ritmo vorticoso dell’innovazione tecnologica, l’importanza del sapere come nuova risorsa strategica della società, la concorrenza globale – ed è luogo di incontro di interessi diversi spesso configgenti, l’istanza della  tutela occupazionale emerge con sempre maggiore prepotenza, operando come una sorta di cuneo che spacca l’unitarietà del sistema giuslavoristico ed influisce sulle fonti di produzione ed interpretazione dello stesso. In altre parole, la garanzia dell’impiego sottopone a fortissime tensioni l’ordinamento del diritto del lavoro ed influisce pesantemente sulle sorti della materia.

E’ del tutto evidente che l’economia mondiale richiederebbe un “governo globale” della disciplina della concorrenza ed “istituzioni globali” in grado di affrontarne le conseguenze.

In realtà, non sembra possibile parlare di una “dimensione sociale” del mercato internazionale, che vede attualmente solo alcune tutele del tutto parziali e largamente in effettive, come le clausole sociali dei contratti internazionali o i codici di condotta delle imprese multinazionali.

L’unico modello sovranazionale sociale che presenta elementi di notevole strutturazione per quanto riguarda le fonti regolative ed al quale dunque deve ispirarsi anche l’ordinamento italiano, è quello dell’Unione europea.

Il titolo VIII del Trattato di Amsterdam prevede una strategia di coordinamento fra politiche economiche e politiche occupazionali finalizzata a promuovere “una forza del lavoro competente, qualificata, adattabile” e a favorire mercati del lavoro in grado di rispondere ai mutamenti economici (art. 125 TCE).

Tale strategia viene realizzata non già con l’armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri, ma con procedure di soft law, con un “metodo aperto di coordinamento”. Si parla dunque di management by objectives  o di governance by persuasion e, in caso di inadempimento, gli Stati membri non possono essere soggetti a sanzioni, ma solo ad eventuali raccomandazioni.  

L’Unione europea non si limita a ritenere che una seria politica occupazionale debba avere necessariamente per presupposto il rilancio della “competitività” del sistema economico, ma delinea anche lo sviluppo di quest’ultimo secondo tre linee direttrici, le quali pongono in luce la necessità di mantenere un modello di sostanziale equilibrio fra sviluppo economico, politica occupazionale e politica sociale.

La prima linea direttrice richiede che la politica economica degli Stati membri sia rispettosa dei parametri di Maastricht e delle regole in tema di concorrenza previste dal Trattato. Sotto quest’ultimo profilo, in particolare si devono richiamare i regolamenti 12 gennaio 2001, n. 68/2001/CE sugli aiuti destinati alla formazione e il regolamento 12 dicembre 2002, n. 2204/2002 sugli aiuti di stato a favore dell’occupazione. Quest’ultimo, di particolare importanza, chiarisce le condizioni soggettive ed oggettive in relazione alle quali gli  aiuti di stato devono ritenersi legittimi.

La seconda linea direttrice pone in luce la “complessità” del messaggio dell’aumento di  competitività, che ha diversi destinatari – i governi nazionali, le imprese, i lavoratori occupati e disoccupati – e richiede azioni ad ampio spettro, cioè non limitate a misure attinenti all’organizzazione del mercato del lavoro o ad eventuali interventi per soggetti cosiddetti svantaggiati, ma riguardanti anche la disciplina del rapporto di lavoro ed il sistema di sicurezza sociale, nella condivisibile convinzione che i profili siano fra loro strettamente collegati.

 In altre parole, appare ben presente alla logica comunitaria l’intreccio di interessi coinvolti nelle dinamiche occupazionali – che si è  prima cercato di porre in evidenza.

In particolare, per il triennio 2005-2008 gli “orientamenti integrati per la crescita e  l’occupazione” invitano i governi nazionali a portare avanti le seguenti azioni: introdurre forme moderne di organizzazione del lavoro e mercati del lavoro ben funzionanti; procedere all’ammodernamento dei regimi previdenziali al fine di garantirne l’adeguatezza, la sostenibilità finanziaria e la rispondenza alle mutevoli necessità sociali, in previsione del calo della popolazione in età lavorativa; investire di più nel settore dell’istruzione  e della formazione.

Le imprese a loro volta devono fare fronte al cambiamento della domanda dei beni e servizi prodotti, utilizzare le nuove tecnologie, essere aperte alle innovazioni.

I lavoratori devono adattarsi ai nuovi metodi di lavoro, a modifiche del loro status professionale, alla mobilità geografica e, soprattutto, alla formazione professionale continua.

Il cosiddetto lifelong learning è lo strumento principe per assicurare che la politica occupazionale comunitaria sia impostata non solo sui more, ma anche sui better jobs, secondo quanto previsto dalla strategia di Lisbona. Quest’ultima, infatti, come è noto, si è posta l’ambizioso obiettivo di trasformare l’Unione europea “nell’economia fondata sulla conoscenza più dinamica e competitiva del mondo, in grado di conseguire una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale nel rispetto dell’ambiente”. La formazione professionale è una scelta sicuramente vincente, ma di lungo periodo. Non solo, essa presuppone altresì una rivoluzione culturale ed un impegno etico notevolissimi, perché appare basata sulla disponibilità alla tensione morale, allo spirito di responsabilità, all’impegno costante.

Infine, la terza linea direttrice – e si tratta di un passaggio assai importante che verrà esaminato in prosieguo – sottolinea che la competitività non può essere raggiunta a scapito dei “diritti sociali”, che nel sistema comunitario hanno recuperato centralità dopo una loro lunga sudditanza nei confronti dei valori economici.

  1. la carta dei diritti fondamentali dell’unione europea e il principio di non discriminazione

L’art. 136 TCE afferma che la Comunità e gli Stati membri devono tenere presente i diritti sociali fondamentali contenuti nella Carta sociale europea firmata a Torino il 1961 e nella Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989.

Anche se non sembra possibile affermare che la norma abbia operato una piena costituzionalizzazione dei diritti sociali, questi ultimi peraltro si pongono sicuramente come parametri orientativi del sistema comunitario.

Più esplicito è l’art. 6, par. 2 del TUE, secondo cui l’Unione rispetta i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950 (CEDU) e dalle tradizioni costituzionali comuni degli stati membri quali “principi generali del diritto comunitario”, dei quali la Corte di giustizia garantisce l’osservanza. La formulazione del precetto è tale da fare ritenere non solo realizzata l’incorporazione della Convenzione nel trattato, ma da porre altresì l’importante premessa per affermare la specificità di un modello sociale europeo, che ancora al concetto di persona o di cittadinanza europea un complesso di diritti economici, sociali, di libertà non più tra loro rigidamente distinguibili.

Un significativo ulteriore passo in quest’ultima direzione viene compiuto dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dichiarazione solenne firmata nel 2000 da tutti i capi di stato e di governo – e come tale priva di valore vincolante

Nell’impianto della Carta, dignità, libertà, uguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia sono valori operanti fra loro in una dimensione unitaria ed al fine della tutela della persona nel suo complesso nei confronti di tutti i fattori di esclusione sociale. In altre parole, l’individuo – considerato nelle diverse espressioni della sua socialità – viene tutelato indipendentemente dalla sua condizione di lavoro nei confronti di eventuali situazioni di disparità.

Si crea dunque, una sorta di statuto protettivo del cittadino-lavoratore, che si applica indipendentemente dal contesto giuridico, economico, sociale e territoriale nel quale deve operare e che realizza una tendenziale uniformità di trattamento legata al concetto di cittadinanza europea.

Nel capitolo della solidarietà – più specificatamente dedicato alla figura del lavoratore – vi è in particolare il riconoscimento espresso di alcuni importanti diritti dei lavoratori: l’informazione e consultazione nell’ambito delle imprese (art. 27); la contrattazione collettiva e lo sciopero (art. 28); la tutela contro il licenziamento ingiustificato (art. 30); le prestazioni di sicurezza sociale e i benefici sociali per ogni individuo che risieda o si sposti legalmente all’interno dell’Unione, quindi anche per gli immigrati (art. 34, par. 2).

Va sottolineato che l’Unione europea – competente in materia di informazione e consultazione dei lavoratori in virtù dell’art. 137 TCE – ha già emanato direttive intese a dare attuazione a tali diritti con riferimento sia a tematiche specifiche – come i licenziamenti collettivi, o il trasferimento di imprese, o la salute e sicurezza sul lavoro –  sia in senso generale (direttiva 22 settembre 1994, n. 94/95/CE relativa all’istituzione del Comitato aziendale europeo o alla procedura per l’informazione e la consultazione dei lavoratori nelle imprese e nei gruppi di imprese di dimensione comunitaria; direttiva 8 ottobre 2001, n. 2001/86/CE che completa lo statuto della Società europea (SE) per quanto riguarda il coinvolgimento dei lavoratori; direttiva 11 marzo 2002, n. 2002/14/CE, che istituisce un quadro generale relativo all’informazione e alla consultazione dei lavoratori nelle imprese nazionali).

Ciò indica che la visione delle relazioni di lavoro condivisa dall’Unione europea è di carattere più partecipativo che conflittuale e che comunque essa presuppone forme di rappresentanza generale dei lavoratori nell’ambito dell’impresa indipendenti dalla rappresentanza di tipo sindacale. Si può anzi affermare che il maggiore coinvolgimento dei lavoratori nelle decisioni relative all’organizzazione dell’impresa con shemi di carattere partecipativo oltre che rappresentativo – oltre che la formazione permanente –  costituiscono per l’Unione europea le due nuove forme di tutela del lavoro subordinato in sintonia con le esigenze del nuovo contesto produttivo.

La libertà di associazione sindacale viene invece riconosciuta nell’ambito delle libertà individuali (art. 12), il che conferma la cautela con la quale il legislatore comunitario continua ad affrontare le tematiche delle forme di rappresentanza sindacale a livello europeo.

Poiché la Carta è una dichiarazione solenne firmata da tutti i capi di stato e di governo, essa ha per il momento un’efficacia giuridica debole, cioè è priva di valore vincolante nei confronti delle autorità nazionali e comunitarie. Tuttavia, viene fin da ora utilizzata come parametro di riferimento sostanziale per tutti gli attori comunitari e in particolare per orientare l’attività interpretativa della Corte di giustizia, come si è già verificato in alcune importanti decisioni.

Inoltre, il nuovo Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 – che deve ancora essere ratificato  dagli Stati membri – ha reso vincolante la Carta dei diritti fondamentali, pur senza incorporarla nel testo del Trattato.

Pertanto, l’Unione europea si doterà anche formalmente di un nucleo duro di diritti sociali fondamentali, che farà da contrappeso ai già da tempo costituzionalizzati valori economici. In tale prospettiva, tende a sbiadire la stessa distinzione fra diritti economici e diritti sociali, fra questi ultimi e i tradizionali diritti di libertà.

L’efficacia della Carta è rafforzata sul piano giuridico dall’art. 13 TCE che attribuisce al Consiglio una nuova competenza normativa in tema di lotta alle discriminazioni “fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età, o le tendenze sessuali”.

Quattro successive direttive antidiscriminatorie di cosiddetta seconda generazione – emanate a partire dal 2000 – evidenziano l’intento dell’Unione europea di estendere l’area della tutela – prima limitata solo ad alcuni fattori di rischio, come la nazionalità ed il genere – ad ogni forma di  discriminazione (per razza, origine etnica, religione, convinzioni personali, età e tendenze sessuali) ed in tutti gli ambiti di relazione fra le persone, cioè con riferimento non solo alle condizioni di accesso all’occupazione ed al lavoro dipendente ed autonomo, ma anche alla protezione sociale, all’istruzione, all’accesso ai beni e servizi. In tal modo si rende effettivo negli stati membri il principio di parità di trattamento.

Il legislatore comunitario è altresì intervenuto nei confronti dei contratti di lavoro atipici – quali il part-time o il contratto a tempo determinato – con le direttive n. 97/81 del 1997 e 1999/70 del 1999 al fine di garantire l’applicazione del principio di non discriminazione rispetto ai lavoratori a tempo pieno ed indeterminato. In tal modo si intende sottolineare che la flessibilità delle tipologie contrattuali del lavoro subordinato non può essere intesa come mero arretramento o addirittura abbandono del codice protettivo, sì da creare due diversi mercati del lavoro, uno stabile e protetto e l’altro precario e sottoprotetto.

Il rifiuto delle discriminazioni, fondato sulla “dignità” della persona, assicura dunque un’”uguaglianza orizzontale” fra gli standard protettivi dei diversi stati membri ed indirizza la Strategia europea dell’occupazione (SEO) all’effettiva ricerca non solo della quantità, ma anche della qualità dei posti di lavoro.

  1. le future prospettive del modello sociale europeo. la flexicurity

Dal complesso degli interventi normativi dianzi citati emerge un “modello sociale europeo” profondamente ancorato ad un nucleo forte di valori fondanti, fra i quali indubbio rilievo assumono l’eguaglianza e la solidarietà, tipici di sistemi ad alta protezione sociale, come sono stati finora quelli dell’Europa occidentale.

Tuttavia, non si può fare a meno di rilevare che per l’Unione europea tale protezione nel futuro debba puntare meno sulla ripartizione ex post delle risorse con funzione riparatoria dei guasti di mercato e più sulla promozione delle capacità e opportunità di partecipazione degli individui al processo produttivo.

Il solco tracciato è quello della flexicurity, cioè della ricerca del migliore equilibrio fra il mantenimento dei livelli di sicurezza sociale presenti nei contesti nazionali e le nuove esigenze di allocazione delle risorse economiche disponibili.

Vengono così ad affiorare, almeno sul piano della mera analisi politica, tematiche quali: il rafforzamento dei meccanismi di coordinamento delle politiche fiscali al fine di orientarle verso obiettivi di crescita economica; una strategia di riforma dei sistemi pensionistici, assistenziali e previdenziali, che ne assicuri la sostenibilità finanziaria e ne adatti la capacità di risposta alle nuove esigenze della società.

Col Libro verde della Commissione europea Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo del 22 novembre 2006 si apre poi un dibattito pubblico sul tema dell’evoluzione della disciplina giuslavoristica.

Il documento citato è per gran parte imperniato sulla politica della flexicurity, la cui definizione e i cui principi fondamentali vengono successivamente identificati nella Comunicazione della Commissione del 27 giugno 2007. Quest’ultima vede la flexicurity come una strategia integrata finalizzata  a migliorare contemporaneamente la flessibilità e la sicurezza sul mercato del lavoro.

Sostanzialmente ispirata al modello del mercato del lavoro danese – che consente flessibilità in termini di assunzioni e licenziamenti in cambio di un efficace sistema di ammortizzatori sociali e di formazione del lavoratore – tale politica presenta alcune fondamentali componenti: disposizioni contrattuali flessibili, ma sicure; sistemi di apprendimento lungo tutto l’arco della vita; politiche attive del mercato del lavoro; sistemi moderni di sicurezza sociale, che facilitino anche la mobilità nel mercato del lavoro.

In altre parole, il complesso di garanzie posto a protezione del lavoro subordinato è rivolto a tutelare non già il mero “posto di lavoro”, ma l’”attività di lavoro”, la cosiddetta employability, intesa come possibilità del lavoratore di usufruire di occasioni di lavoro diverse, secondo la propria scelta.

Si sottolinea poi che la strategia indicata ha garanzia di successo solo in presenza di una partecipazione attiva delle parti sociali, cioè se opera all’interno di un efficace dialogo sociale.

Nella stessa Comunicazione, la Commissione indica poi agli Stati membri i “principi” comuni della flexicurity e quattro “percorsi” tipici, che essi possono adottare in relazione alle esigenze del proprio mercato del lavoro: la  risoluzione del problema della segmentazione contrattuale, cioè del divario fra contratti a tempo indeterminato ed altri tipi di contratto con l’introduzione di sistemi di sicurezza sociale e di formazione più efficaci; lo sviluppo della flessibilità all’interno dell’impresa e della sicurezza della transizione da un lavoro all’altro; l’investimento sulle risorse umane in termini di competenze e di opportunità; la creazione di nuove occasioni lavorative per i percettori di sussidi sociali e la lotta al lavoro nero.  

La scelta della cosiddetta terza via fra il mantenimento di un impianto di welfare finanziariamente sempre meno sostenibile ed il suo abbandono – come tutte le linee di sofferto compromesso – appare di non facile realizzazione, poiché presuppone che sviluppo economico, politica occupazionale e coesione sociale vadano di pari passo, operando in una logica di rafforzamento reciproco. Inoltre, si tratta di una linea di indirizzo che richiede tempi certamente più lunghi di quelli concessi dal ritmo vorticoso dell’innovazione tecnologica e da quello di crescita di nuovi paesi che si affacciano sulla scena economica mondiale.

Soprattutto, occorre una capacità di accettazione del nuovo, la quale  richiede – oltre che mutamenti di carattere industriale e finanziario – processi di “adattamento socio-culturale” che non tutti i paesi europei sembrano avere ancora realizzato.

In tale contesto, l’Unione europea trova difficoltà a contemperare i valori della tradizione coi valori della modernità e manifesta notevole incertezza nel trovare un punto di equilibrio fra una politica legislativa di tutela dell’efficienza dell’impresa e del mercato e la garanzia della giustizia sociale, anche perché priva di incisivi poteri di coordinamento.

Un esempio illuminante è costituito dalla vicenda relativa alla cosiddetta direttiva Bolkestein relativa ai servizi nel mercato interno. Come è noto, quest’ultima nel testo approvato dalla Commissione si basava sul principio cardine del paese di origine inteso nel senso che i servizi ed i loro prestatori dovevano avere libero accesso nel territorio di tutti gli Stati membri, purché dimostrassero di ottemperare alle proprie legislazioni di origine. Tale principio è stato invece espunto dal testo approvato dal Parlamento europeo, che si è fatto portatore delle forti opposizioni espresse dalle parti sociali – convinte della necessità di applicare la normativa giuslavoristica e la contrattazione collettiva degli Stati membri di accoglienza –  e delle organizzazioni delle libere professioni, preoccupate di una apertura eccessiva alla concorrenza. Inoltre, dal campo di applicazione della direttiva sono stati esclusi ulteriori servizi di interesse economico generale ed attività professionali legate all’esercizio di funzioni pubbliche.

  1. gli obiettivi e gli strumenti di realizzazione del modello sociale europeo

Alla luce delle considerazioni finora esposte, è possibile trarre alcune sia pure parziali conclusioni.

Appare evidente che la politica sociale dell’Unione europea è stata interessata da una profonda evoluzione con riferimento sia agli obiettivi che si è proposta di realizzare, sia agli strumenti di volta in volta utilizzati per il processo di integrazione europea.

Per quanto attiene ai primi, l’interesse per materie strettamente inerenti al rapporto individuale di lavoro è stato superato – in ragione dei processi di interdipendenza economica e finanziaria conseguenti all’Unione economica e monetaria – da quello per le tematiche più generali della tutela occupazionale e del mercato del lavoro, dei sistemi di protezione e sicurezza sociale, nella preoccupata ricerca di una soluzione intermedia fra il mantenimento o la demolizione progressiva del costoso sistema di welfare.

È ben vero che quest’ultima materia è ancora soggetta alla regola della decisione all’unanimità, in quanto appartenente all’area della maggiore resistenza della dimensione nazionale, ma non si può negare che essa subisca i rigidi condizionamenti esterni derivanti dall’esigenza del contenimento della spesa pubblica – conformemente ai contenuti del Patto di stabilità – e dalla forte competitività del mercato globale.

Al riguardo si fa strada l’idea che i sistemi di protezione sociale debbano concentrarsi meno sulla ripartizione ex post delle risorse con funzione riparatoria dei guasti del mercato e più sulla promozione delle capacità e opportunità di partecipazione degli individui al processo produttivo, dunque in termini di capitale umano e di occupabilità.

Si profila il passaggio da un modello sociale di “solidarietà distributiva” ad uno di “solidarietà competitiva”, più adatto a conciliare le esigenze di crescita economica di un mercato globale con quelle di equità e di sicurezza sociale.

Il mutamento di prospettiva richiede che l’intervento comunitario sia orientato a realizzare politiche di riequilibrio delle condizioni economiche e sociali degli Stati membri, alla luce di alcuni grandi indispensabili valori di riferimento.

È proprio questo il significato della Carta dei diritti sociali fondamentali dell’Unione europea, che, in una visione di “liberalismo socialmente evoluto”, pone particolare accento sull’eguaglianza delle opportunità, secondo un modello di società più dinamica e meno protettiva.

Per quanto riguarda il discorso sulle forme di intervento utilizzate al fine di raggiungere gli obiettivi prefissati, è significativo il passaggio dal modello dell’armonizzazione forte per il tramite di regolamenti e di direttive – congeniali ad assicurare una tutela individuale sorretta da norme inderogabili – ad altre fonti di regolamentazione più partecipata – come la contrattazione collettiva – o comunque più flessibile, come le direttive di seconda generazione rivolte a svolgere un’azione di coordinamento a maglie larghe delle diverse discipline nazionali in vista di comuni obiettivi, secondo tecniche imperniate sul management by objectives piuttosto che sul management by regulation.

La soft law appare del resto la tecnica più rispondente al principio di sussidiarietà e più idonea a coordinare i rapporti fra gli Stati membri.

La riforma degli assetti nazionali di welfare è tuttora in corso e non sembra possibile fare previsioni sul ritmo e sull’effettiva entità del processo di revisione, a meno che la Comunità non decida di adottare strumenti di pressione ancora più stringenti degli attuali.

Certo è che la costruzione di un “modello sociale europeo” e dell’idea di solidarietà che in esso trova espressione, appare un’esperienza importante non solo per la specifica area regionale alla quale si riferisce, ma anche in vista della necessità di identificare una “dimensione sociale” nell’ambito del mercato globale.

Infatti, come si è da più parti rilevato, al di fuori del contesto europeo, è palese la difficoltà di reperire istituzioni sovranazionali in grado di generare normative capaci di fornire standards di tutela sia pure minimali, così come di individuare strumenti efficaci di autoregolazione sociale del mercato globale.

Se è vero che – come efficacemente afferma Joseph Stiglitz – viviamo in un processo di globalizzazione, ma non abbiamo le istituzioni globali in grado di affrontarne le conseguenze, perché privi di un governo globale, il modello europeo di equilibrio fra libertà economiche e valori sociali è, al momento, il solo parametro referenziale avanzato di ricerca dei comuni principi fondativi di una futura società internazionale.